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Chirurgia plastica: le sue origini al tempo della Grande Guerra per ricostruire i volti dei soldati

C’è una branca della chirurgia che è oggi largamente al nostro servizio soprattutto per curare inestetismi, correggere piccoli difetti o per rallentare segni del tempo. Incuriosisce pensare che questo sapere, spesso al servizio del nostro desiderio di sembrare più belli o sexy, derivi invece da quanto di più drammatico e brutale si sia verificato nella storia recente.

La chirurgia plastica, o più correttamente chirurgia ricostruttiva, conobbe il suo più grande sviluppo durante la Grande Guerra, quando doveva occuparsi di porre rimedio – per quanto possibile – alle devastanti ferite degli shrapnel, dei lanciafiamme, o delle schegge delle enormi granate che straziavano i soldati nelle trincee e che ne lasciavano i volti sfigurati. 

La peculiarità della guerra di trincea faceva sì che spesso l’unica parte del corpo ad essere esposta al fuoco nemico fosse appunto la testa. Quando si sopravviveva, le ferite al viso lasciavano tracce terribili. Se affrontare la mutilazione di un arto e rimediarvi con una protesi era abbastanza comune, le deturpazioni facciali producevano forme depressive e traumi psicologici tali da condurre spesso al suicidio le vittime, anche dopo il ristabilimento delle loro condizioni di salute.

Il «ritocchino», cento anni fa serviva quindi a un combattente per tornare a mangiare, a parlare, bere, respirare, o semplicemente per potersi reinserire nella vita civile senza dover portare una maschera.

Fino al 1917, infatti, i volti deturpati dei reduci venivano protetti dagli sguardi della gente con sottilissime maschere di rame, lavorate in modo da ricostruire la forma del viso. Un volta dipinte color carne venivano legate al viso con cinghie o innestate in occhiali speciali.  

In Inghilterra lo scultore Francis Derwent Woods aveva promosso e gestito un servizio apposito per l’esercito britannico insieme ad altri scultori. Dalle vecchie foto del paziente ricostruivano le parti di volto mancanti. Anche in Francia vi fu qualcosa di simile: la scultrice americana Anna Colemann Ladd alla fine del conflitto aveva realizzato protesi per 185 soldati feriti.

La grande innovazione giunse con il dottore neozelandese Harold Gillies che prestò servizio nel Royal Army Medical Corps. Collaborando col dentista franco-americano, Valadier, imparò le tecniche di ricostruzione della mascella e di innesto e ricrescita della pelle. Al suo ritorno in Inghilterra Gillies convinse le gerarchie medico militari ad aprire un reparto per chirurgia ricostruttiva presso l’Ospedale Militare di Cambridge, Aldershot. 

La sua tecnica consisteva nel prelevare lembi di pelle da una parte del corpo meno visibile e farla attecchire sulla parte lesionata del volto. Interessante notare come la sezione di cute da utilizzare non venisse staccata completamente dal corpo, ma che, ripiegata in forma tubolare, potesse continuare a rimanere irrorata dai vasi sanguigni. Questo faceva sì che oltre a evitare del tutto il pericolo del rigetto, il lembo di cute rimanesse irrorato e che non si necrotizzasse una volta trapiantato. Solo quando il «rappezzo» poteva considerarsi attecchito, il raccordo tubolare veniva rimosso chiurgicamente.

Tuttavia, Gillies non aveva scoperto nulla di nuovo. Si era ispirato ad antiche tecniche, tra cui quella per la rinoplastica, affinata in India per almeno tremila anni per porre rimedio all’asportazione del naso. Gli Indiani ricostruivano anche orecchie e labbra.

Questi saperi erano filtrati in Europa durante l’età classica e vennero riportati in testi come il Corpus Hippocraticum nel quale erano contenute indicazioni anche per rimuovere cicatrici e marchi infamanti. Durante il Medioevo queste conoscenze rimasero conservate dalle biblioteche monastiche, ma sparirono dall’uso comune.  

 

Bisognerà attendere il Rinascimento quando due chirurghi siciliani Gustavo e Antonio Branca a Catania si specializzarono nella rinoplastica utilizzando porzioni di pelle del braccio del paziente.  (Fonte: www.lastampa.it)